Recentemente ho incontrato un giovane ed entusiasta ingegnere che ha dichiarato: “Abbiamo finalmente definito la strategia di gestione dei servizi di manutenzione, è tutto descritto e ben sviluppato in un documento del team di progetto”.
Gli ho risposto: “Bene, ciò significa che hai fatto il 5% del lavoro”.
Con questo racconto Christer Idhammar, Reliability and Maintenance Management Consultant, inizia un illuminante articolo dal titolo “The Lack of Execution”.
Confesso che, se all’inizio della mia carriera di project manager avessi ricevuto la risposta data da Idhammar al giovane ingegnere, sarei rimasto di ghiaccio, ma oggi ne capisco il senso.
La mancanza o la scarsa attenzione nei confronti dell’execution è la principale causa di fallimento di progetti e perfino di aziende.
In un articolo pubblicato da Harward Review nel 2008 viene citata un’indagine condotta su un campione di 125mila persone (in rappresentanza di oltre 1000 aziende) da cui è risultato che i dipendenti di 3 aziende su 5 hanno giudicato la loro organizzazione debole in tema di execution. In altre parole, quando gli è stato chiesto se concordavano con la dichiarazione “Importanti decisioni strategiche e operative sono rapidamente tradotte in azione”, la maggioranza ha risposto no.
Sono passati dieci anni da quella ricerca e, grazie all’innovazione tecnologica, oggi abbiamo nuovi e più sofisticati software di project management ma l’execution rimane ancora un punto debole di molte organizzazioni.
Fare la cosa giusta è importante, è qui che entra in gioco la strategia. Ma farla bene, la execution, è ciò che fa la differenza per le aziende.
Jeffrey Pfeffer , professore di Organizational Behavior alla Stanford Graduate School of Business
Cos’è l’execution management?
“Get things done”, il titolo del programma di formazione realizzato da Jeffrey Pfeffer per Sda Bocconi, esprime in estrema sintesi il significato dell’execution.
L’execution è una fase del processo di project management ma spesso non le viene dato il giusto rilievo. Come se il project management riguardasse solo la fase di pianificazione. Ma non è così, l’execution è la parte più operativa e anche difficile dell’attività di project, quella che fa la differenza tra un bel progetto sulla carta e uno ben realizzato.
Anche per questo motivo ho deciso di aggiungere alla mia etichetta professionale di project quella di execution manager.
Nella fase di execution vengono messe alla prova la capacità di pianificazione e organizzazione del lavoro, ma anche la capacità di comunicare e condividere il progetto con altre persone coinvolte e la capacità di affrontare gli imprevisti.
L’execution management è quindi una disciplina (non a caso uso questo termine) che richiede un mix di competenze hard (quelle tipiche del project manager) e di competenze soft come la capacità di comunicare in modo efficace, la gestione dell’incertezza e quindi la capacità di gestire le emozioni in situazioni difficili.
Io sono un ingegnere e, secondo un vecchio detto, “gli ingegneri funzionano, non comunicano”. Ma nella mia esperienza ho imparato che per far funzionare le cose, per portare a termine un progetto, è fondamentale saper comunicare e costruire delle relazioni positive, in primis con la squadra che materialmente sarà operativa sul progetto, con la dirigenza che l’ha commissionato e deciso e anche con altri attori che possono entrare in scena. Questa capacità, insieme alla capacità di gestire lo stress, consente spesso di superare imprevisti come quello che mi è capitato nel progetto del parco eolico di Lucera.
L’execution e la capacità di risolvere gli imprevisti
Durante la realizzazione del parco eolico di Lucera, ad esempio, il progetto ha subito una battuta d’arresto perché durante gli scavi per l’installazione di un aereogeneratore sono emersi reperti di interesse archeologico.
In casi come questi, il cronoprogramma del progetto viene messo a dura prova e con esso la capacità di gestione dell’imprevisto e dello stress conseguente.
Una buona pianificazione iniziale del lavoro ci ha permesso di definire dove delocalizzare le maestranze, dirottandole verso altre attività in attesa di risolvere la questione con la Soprintendenza Archeologia.
Era chiaro, gli obiettivi in gioco erano diversi, pressoché opposti. A quel punto la capacità di entrare in empatia con l’altro e di approcciare la questione da alleati anziché da nemici ha fatto la differenza.
Da subito mi sono fatto raccontare il valore di quanto era emerso dagli scavi. Mi sono dimostrato interessato al lavoro di tutela che le società di archeologia avrebbero svolto. Poi ho chiesto di individuare i reperti con il maggior valore storico e ci siamo concentrati sulla loro valorizzazione.
Le società di archeologia, coordinate dalla Soprintendenza, hanno realizzato importanti studi e tutti gli sforzi sono confluiti nella mostra permanente “Venti del Neolitico, uomini del rame” all’interno del Castello di Manfredonia e nella pubblicazione collegata.
Aver dimostrato sensibilità al lavoro altrui, aver contribuito alla riuscita dell’intervento di salvaguardia e di valorizzazione ha generato nella controparte lo stesso interesse alla riuscita del nostro lavoro. Questo ha permesso di riprendere i lavori in un tempo accettabile senza prolungati fermi cantiere e con limitati impatti a livello contrattuale e di extra costi.
Inoltre per chissà quanti anni sarà ancora possibile visitare e apprezzare i reperti archeologici emersi durante il lavoro svolto anni fa a Lucera.
Il successo di questo progetto è il risultato della combinazione di una buona pianificazione a monte (che, a dirla tutta, ha pesato un po’ più del 5%!), della capacità di affrontare l’imprevisto in modo produttivo e dell’abilità di gestire relazioni a diversi livelli, perfino con persone che potrebbero influire pesantemente sulla riuscita del progetto.
Questo ha fatto la differenza tra un progetto bello sulla carta e un’opera che oggi continua a produrre elettricità da fonti rinnovabili equivalenti al consumo medio annuo di circa 25.000 famiglie italiane.
Anch’io sto conducendo una mia piccola indagine, che parte da quella citata da HBR, per rispondere alla domanda: “Perché in molte aziende importanti decisioni strategiche e operative non vengono rapidamente tradotte in azione?”.