Intervista a Flavio Angiolillo, bartender e imprenditore
Nella nightlife milanese, il nome di Flavio Angiolillo è un’istituzione. Classe 1984, Flavio è un bartender di grande esperienza e spiccato spirito imprenditoriale. Lo dimostra il successo dei cinque locali di cui è fondatore (Mag, 1930 Cocktail Bar, Backdoor43, Barba e Iter), a cui si è aggiunto di recente il nuovo brand Farmily. Proprio il 1930 è uno dei due locali italiani a essere stati inseriti nella prestigiosa classifica The World’s 50 Best Bars 2019, una vera istituzione per il settore.
Ho deciso di iniziare da lui una serie di interviste a imprenditori e startupper di vari settori che si sono contraddistinti non solo per le loro brillanti idee, ma anche e soprattutto per la capacità di portarle a compimento, coordinando in maniera ottimale tempi, risorse e collaboratori. In poche parole, il loro approccio è fortemente orientato all’execution.
Per questo, al termine dell’intervista elencherò alcune lezioni di execution management che si possono trarre dall’esperienza di Flavio. Non amo dare troppe anticipazioni, ma posso già dirti che parleremo di idee che diventano obiettivi, di focus e anche di gestione del team. Ora, però, lascio la parola a Flavio.
Il tuo lavoro ti porta senza sosta da un locale all’altro e da una città all’altra. Come gestisci tutte queste attività? Riesci a distinguere tra macro obiettivi e operatività quotidiana?
Sì, sì, sì. L’obiettivo principale è quello di avere sempre almeno un locale o due locali sulla bocca di tutti, perché in fin dei conti la gente viene da noi per questo: per curiosità, per critica, perché piace… Quindi dobbiamo dare il massimo per incuriosire i nostri clienti. Come organizzo tutto questo? Prendi ad esempio il Mag, com’è? Un casino organizzato! La mia vita è così. Perché a me vengono in mente tantissime idee: magari ne ho dieci, ne mando avanti sei e altre quattro rimangono lì.
Facciamo un giro nel passato. Ricordi la tua prima volta dietro un bancone?
Sì, me lo ricordo, ma da subito il mio obiettivo non era quello di stare lì dietro un bancone. Volevo imparare tutto il possibile sulla ristorazione, per poter fare il grande salto. Quando facevo il lavapiatti, per esempio, mi sentivo spesso dire: “Non c’è ancora abbastanza ordine, non sei organizzato”. È così che ho maturato l’esperienza che mi ha permesso, anni dopo, di dare istruzioni agli altri. In cucina è stato uguale. Ho fatto due anni in cucina, da lì sono passato in sala, al bancone, e poi ho gestito un locale trovandomi sotto a due capi.
È qui che hai fatto il passaggio, da gestire un locale ad averne uno tuo?
Sì, perché i due soci non volevano fare il passo più lungo della gamba e preferivano occuparsi di altro. Io ero molto più operativo, loro preferivano l’organizzazione. A 23 anni ero il direttore del Fashion Cafè in piazza San Marco; tutta la nostra generazione a Milano è passata da lì. A quel punto ho voluto fare il grande passo, perché a mio parere si poteva fare ancora di più. Avevo delle idee e, semplicemente, mi sono messo all’opera.
Qual è stato il primo locale davvero tuo?
Prima del Mag ho trovato un locale in cui facevo colazioni al mattino, pranzi, sala da tè al pomeriggio, aperitivo, la sera si poteva cenare, dopo cena si può bere qualcosa… era un posto molto, molto bello! Eppure, la gente non lo capiva e non entrava più di tanto. Per quale motivo? Ho esaminato il contesto milanese e mi sono chiesto: “Perché davanti a quel ristorante c’è sempre la fila? Perché è il miglior sushi di Milano. Perché la gente sgomita per entrare in quella gelateria? Perché è la migliore. E quel bar, perché è sempre pieno? Perché ha un’ottima carta dei vini”. Tutto qui: bisogna identificare una cosa, una sola, e diventare i migliori. A quel punto ho chiuso il Nero Fondente e ho aperto il Mag insieme a Marco Russo (il mio primo e attuale socio). Così è iniziata quest’avventura: solo colazioni al mattino, solo cocktail alla sera, stop. Abbiamo ricevuto un ottimo riscontro, è piaciuto molto.
All’apertura del Mag quindi hai capito che non dovevi fare un po’ di tutto, ma focalizzarti soltanto su una cosa. In quel momento qual era il tuo obiettivo finale? Era soltanto quello di sviluppare il Mag o avevi un progetto più ampio?
All’inizio volevo soltanto un locale che mi permettesse di mantenermi, un locale in cui le persone si sentissero bene e volessero tornare ogni settimana. Col tempo ho deciso di diventare il numero uno del mio settore, ho maturato un’idea, poi un’altra; più andavo avanti, più volevo arrivare lontano. Insomma, ho continuato e continuato. Fino ad arrivare a Iter, un locale realizzato in due mesi.
Me lo ricordo perfettamente. Lo spazio non era ancora stato liberato, ma tu ti sei guardato attorno e hai descritto il futuro locale fin nei minimi dettagli. Il potere della visualizzazione applicato a un locale, così come alla vita: hai la capacità di capire esattamente dove vuoi arrivare e quali passi devi compiere per riuscirci. A proposito, perché nasce Iter? A differenza dagli altri tuoi locali, include anche la componente food.
Cosa che non avevamo e che non volevo bruciarmi nuovamente, dopo la disavventura con il primo locale. Ma con Iter ho capito che era arrivato il momento propizio. Nelle prime intenzioni Iter doveva essere un progetto incentrato al 100% su un solo prodotto italiano, ma sono venuto a conoscenza di altre due o tre aperture di questo genere, quindi mi sono imposto di non mettermi in concorrenza con loro. Volevo offrire ai clienti la possibilità di trovare sempre qualcosa di nuovo e, al tempo stesso, avere materiale per creare in continuazione contenuti diversi per i social. Visto che a tutti piace viaggiare, ho trovato il concept: senza dimenticare la base italiana, ogni sei mesi il locale sarebbe stato dedicato a un Paese diverso.
Di recente hai dato vita anche a Farmily, di cosa si tratta?
Normalmente, dopo un anno e mezzo dall’apertura di un nuovo locale iniziamo a metterci all’opera sul successivo. Ogni mese mettiamo da parte una quota dei nostri incassi e, quando questo “tesoretto” è abbastanza consistente, inauguriamo un nuovo progetto. In questo caso abbiamo ideato il brand Farmily e abbiamo invitato i nostri dipendenti a investire nel progetto. Farmily si occupa di produzione di alcolici (siamo già a cinque prodotti a marchio, il sesto è in arrivo) e di collaborazioni, consulenze, catering.
Avendo più locali, sei costretto a fidarti dei tuoi collaboratori. Come gestisci il processo di delega?
Ogni locale ha il suo manager (o direttore) che ha un vice. Anche il vice, a sua volta, deve sapere chi è il suo braccio destro. Se la figura al vertice se ne va, infatti, tutta la piramide sale. Per quanto riguarda il processo di delega, io ragiono così: se tu sei riuscito ad assumere un determinato ruolo, ti do la possibilità di vincere o di sbagliare. Se mi piaci a pelle hai subito il 100% della mia fiducia, anche se ti conosco da quattro ore. Chiaro, poi le tue azioni confermeranno o smentiranno la mia opinione iniziale. Va da sé che questo atteggiamento mi espone anche a qualche rischio.
Cosa significa “innovazione” nel tuo settore?
La vera innovazione secondo me è quella che la gente non capisce e scambia per pazzia. I non addetti ai lavori intendono come “innovazione” semplicemente una rivisitazione di ciò che sta succedendo adesso. Per i professionisti che fanno cocktail tutti i giorni il Mag non è nulla di innovativo, ma d’altra parte non promette di esserlo: il Mag è un passo avanti rispetto alla media dei locali e per questo che la gente lo apprezza. Il 1930 sì che è innovativo, e per questo non tutti riescono a capirlo.
Chiudi gli occhi e immaginati tra cinque anni. Cosa vedi? Qual è il tuo obiettivo minimo?
Vendere il brand Farmily restando socio, perché voglio continuare a vivere nel mondo di Farmily. Vorrei girare il mondo in cerca di ispirazioni e idee sempre più innovative.
Tra i riconoscimenti che hai ottenuto, qual è quello che ti rende più felice?
“Lei non sa chi sono io!” trovo sia una delle frasi più brutte che puoi dire in italiano. A me non è mai piaciuto gridare per farmi notare. Grazie alla mia passione ho dimostrato il mio valore che ormai è riconosciuto.
Hai un enorme network di conoscenze. Come l’hai costruito e come lo alimenti?
Le mie regole sono queste: mai dire di no a un appuntamento, ascoltare sempre tutti ma, al tempo stesso, essere sempre velocissimo a capire se l’opportunità ti interessa o meno. All’inizio mi è capitato anche di prendere lavori in cui venivo trattato malissimo, ma magari dopo due o tre anni quell’interlocutore mi è tornato utile per altri progetti. Se gli avessi chiuso la porta in faccia, mi sarei precluso un’opportunità. È qui che tanti sbagliano: bisogna tenersi sempre la porta aperta, perché non si sa mai cosa può succedere domani.
Le 5 lezioni di execution management che possiamo imparare da Flavio Angiolillo
Le parole di Flavio sono la chiara dimostrazione di come l’execution, intesa come la sistematica “messa a terra” delle varie attività, faccia la differenza tra le buone idee che restano nel cassetto e le imprese che si affermano sul mercato. Mi sembra utile quindi sottolineare gli aspetti che si inseriscono in modo particolarmente mirato all’interno del metodo che ho formalizzato:
- “Avevo delle idee e semplicemente mi sono messo all’opera”. Così Flavio apre l’intervista e risponde ad una delle mie prime domande. Questa attitudine è fondamentale. Molte volte nella mia attività di execution manager mi capita di incontrare imprenditori che si portano dietro un enorme bagaglio di ottime idee che non hanno mai visto la luce. Il primo passo perché un progetto sia di successo è proprio avere il coraggio di fare il primo passo.
- Il primo step dell’attività di execution consiste nella definizione di dove si vuole arrivare e di come riuscirci: ciò richiede di fare uno sforzo di visualizzazione e sviluppare un giusto grado di ambizione. I primi momenti di un progetto imprenditoriale – che lo stesso Flavio ha raccontato – spesso sono costellati di difficoltà e risposte negative, ma l’umiltà è una dote che nel lungo termine viene ricompensata.
- La chiave del successo dei locali di Flavio è quella di identificare un solo punto di forza e affermarsi come i migliori: attorno a questo punto nodale si vanno poi a definire le caratteristiche, le attività, le competenze da introdurre ecc. Di frequente invece capita il contrario: ci si appassiona a un’idea e si inizia a metterla in campo senza aver definito un programma di dettaglio delle attività e dei relativi output.
- Anche l’imprenditore – o il project manager – più capace non può immaginare di gestire un progetto complesso dalla A alla Z. È indispensabile circondarsi di persone competenti e, soprattutto, responsabilizzarle mediante un corretto processo di delega (quello che Flavio sintetizza nella frase “do la possibilità di vincere o di sbagliare”). Ogni membro del team di progetto deve essere consapevole dei confini del proprio ruolo, ma al tempo stesso comprendere che ogni singolo contributo è cruciale per il raggiungimento del macro-obiettivo dell’azienda.
- Come amo spesso ripetere, un aspetto fondamentale dell’execution è la comunicazione tra i membri del team e, in senso più allargato, tra tutti gli stakeholder coinvolti. In questo senso, i locali di Flavio sono organizzati con un metodo scientifico: ciascuno ha un manager di riferimento e un vice, a cui rispondono i referenti delle diverse aree. Così facendo, le informazioni circolano in modo fluido e si riesce a garantire una continuità anche in caso di imprevisti.